Anche quest’anno eccoci giunti alla Liberazione, ovvero a quell’evento da cui la nostra Nazione uscì risorta, rinnovata, ricreata, mondata, e del tutto liberata; frutto di una miracolosa palingenesi di ritorno, capace di trasformare un intero popolo. Palingenesi che, occorre sempre rammentarlo, fu però indotta dallo shock prodotto dai grappoli di bombe sganciate a casaccio dai Liberator (per l’appunto) su una popolazione che fino a pochi anni prima esecrava i maledetti Inglesi ed esultava per le conquiste coloniali e per la guerra intrapresa. Fu, si può dire, una Liberazione indotta (se non forzata) il cui primo atto andrebbe fatto risalire alla resa incondizionata dell’8 Settembre; anch’essa peraltro stimolata dal solito destabilizzante bombardamento all’americana, cui va riconosciuta una capacità persuasiva eccezionale.
Non è mai abbastanza rimarcato il ruolo della bomba aerea nella Liberazione del nostro popolo, giacché furono quei precipitanti ordigni a schiarire le idee agli Italiani e a indurli a liberarsi prima di tutto… da se stessi. Infatti, a voler essere onesti, il Tedesco fu solo marginalmente e come effetto secondario il nostro oppressore: il primo fu l’Italiano stesso, nella veste di Fascista. Sotto questo punto di vista si dovrebbe stabilire una continuità ideale tra l’8 Settembre e il 25 Aprile e celebrare entrambe le date come fondanti della nostra Repubblica; la quale dovrebbe poi avere come simbolo una bomba coll’ogiva in giù, in atto di precipitare, quale risvegliatrice di coscienze e liberatrice dell’Italiano da se stesso.
Nessuno strumento come una bomba sembra adatto a produrre un fulmineo mutamento nelle idee che albergano in un cervello, e forse solo una scarica elettrica è capace di produrre lo stesso risultato. Ma la scarica elettrica è per ora difficilmente applicabile per un’operazione di massa come fu il caso dell’Italia. La bomba, per l’assordante rumore e per le vibrazioni che produce, capaci di scuotere nel vero senso della parola la materia cerebrale all’interno della scatola cranica, e di riverberarsi di testa in testa, è invece lo strumento perfetto per far cambiare opinione a una popolazione. Quanto meno alla popolazione superstite, e in ciò i Giapponesi sono la prova.
Invece, per un curioso scherzo della memoria, in luogo dei bombardamenti la Liberazione evoca più facilmente la Resistenza e tutto il suo immaginario di fazzoletti rossi, di sentieri di montagna, di eccidi e di canti. Non è poi un mistero che il numero di partigiani in Italia crebbe magicamente di anno in anno, dal dopoguerra in avanti, toccando l’apice negli anni ’70, quando veniva da credere che a fine conflitto le montagne pullulassero letteralmente di costoro e che oltre certe quote vi fosse quasi difficoltà a muoversi, come avviene in certe stazioni di montagna in alta stagione, a causa del turismo. Gli ex-partigiani abbondarono particolarmente nel settore della cultura e delle arti, ove mi capitò di incontrarne parecchi persino negli anni ‘90, alcuni ragionevolmente credibili, altri del tutto improbabili. Al proposito ricordo il catalogo di un artista che non cito per discrezione da me conosciuto anni addietro. Nella biografia di costui, che era parecchio avanti negli anni (un innocuo vecchietto, diciamo) si poteva leggere: “Partecipò alla Resistenza, prima organizzandosi con alcuni amici; poi proseguendo da solo.”
Immaginate costui, che all’epoca doveva essere un ragazzino, insieme agli amici a formare una specie di brigata a sé stante, quasi una banda di strada, presumibilmente priva di armi, le cui missioni si dovevano risolvere in gavettoni e fiondate tirate proditoriamente ai tedeschi occupanti. E immaginate poi cosa dovette muovere lo stesso a “proseguire da solo”… Probabilmente bisticciò con il resto della banda. O semplicemente gli altri si erano annoiati e avevano cambiato gioco. Tale “proseguimento in solitaria” si sottrae comunque a qualsiasi immaginazione o raffigurazione… A meno che costui non si mise a fare la “staffetta”.
La staffetta è una figura pervasiva nella narrazione popolare sulla Liberazione. Il perché è presto detto: a voler dire di esser stati partigiani qualche maligno potrebbe sempre insinuar dubbi e domandare dettagli e prove: “E con quale brigata? Sotto quale comando? Registrato sotto quale nome?” Sembra impossibile ma la nostra Resistenza pur avendo albergato sui monti in stato di totale selvatichezza, ha tuttavia lasciato una documentazione.
Per sottrarsi a una eventuale richiesta di circostanziare i fatti, ecco venire in soccorso la figura della staffetta, la quale di per sé evoca una dimensione di indeterminatezza… Si colloca a metà strada tra civili e combattenti e fa da tramite, simile, a un Ermes, tra due mondi. Essa non combatte né resta inattiva, ma la sua stessa mobilità ne fa una figura ineffabile e segreta. La staffetta, sulla sua immancabile bicicletta, non si fa agguantare neppure dalla memoria, ed è capace di riapparire a guerra finita senza che nessuno l’abbia mai veduta o sentita ai tempi delle montagne. “Fui partigiano anch’io”. “Combattesti dunque? E dove e quando?”. “Non combattei, no…Ero una staffetta.”
Peraltro la figura della staffetta ben si adatta anche a chi, per ragioni anagrafiche, potrebbe difficilmente spacciarsi per un ex-combattente; cosicché un’intera generazione nata a metà degli anni trenta poté ovviare alla frustrazione di sentirsi esclusa da un’epopea e ricostruirsi un passato da padre/madre della patria, ricorrendo a questo espediente: la staffetta poteva benissimo (anzi doveva!) esser di età giovanissima all’epoca della guerra.
Qualche settimana fa una mia conoscente non pensò vi fosse meglio da fare che celebrare l’imminenza del 25 Aprile evocando l’attività di staffetta della nonna. Stavamo prendendo un caffè. Chiesi qualche particolare ma la narrazione si tenne sul vago, come si conviene alle storie di staffette. Poi, qualche giorno dopo un amico mi raccontò commosso dell’attività staffettistica del padre. E ancora: davanti a un vinaio, sempre recentissimamente, udii uno stralcio di conversazione tra due uomini di età avanzatissima; uno dei quali descriveva all’altro gli affanni e le paure tra corse e scorribande notturne, tra echi di spari e urla in tedesco, nei tempi in cui era staffetta.
Chi legge queste righe faccia mente locale e veda se nella sua stessa famiglia non rinvenga almeno una staffetta e se non ritrovi la stessa situazione negli alberi genealogici dei propri conoscenti. A contarle, rimarremmo tutti sorpresi dalla quantità di staffette che correvano per i monti e le città italiane sul finire della guerra, in bicicletta o molto spesso a piedi, come veri maratoneti. Considerando il quadro che ne viene fuori non doveva esser evento raro l’essere investiti da codeste staffette che imperversavano ovunque: certamente, prima di attraversare una strada, chiunque guardava a destra e a manca per assicurarsi che non provenisse una staffetta a tutta velocità. Tempi lontani. Che oggi non riusciamo neanche più a immaginare.