25 Aprile. Tra bombe e staffette.

aprile 24, 2017

Anche quest’anno eccoci giunti alla Liberazione, ovvero a quell’evento da cui la nostra Nazione uscì risorta, rinnovata, ricreata, mondata, e del tutto liberata; frutto di una miracolosa palingenesi di ritorno, capace di trasformare un intero popolo. Palingenesi che, occorre sempre rammentarlo, fu però indotta dallo shock prodotto dai grappoli di bombe sganciate a casaccio dai Liberator (per l’appunto) su una popolazione che fino a pochi anni prima esecrava i maledetti Inglesi ed esultava per le conquiste coloniali e per la guerra intrapresa. Fu, si può dire, una Liberazione indotta (se non forzata) il cui primo atto andrebbe fatto risalire alla resa incondizionata dell’8 Settembre; anch’essa peraltro stimolata dal solito destabilizzante bombardamento all’americana, cui va riconosciuta una capacità persuasiva eccezionale.

Non è mai abbastanza rimarcato il ruolo della bomba aerea nella Liberazione del nostro popolo, giacché furono quei precipitanti ordigni a schiarire le idee agli Italiani e a indurli a liberarsi prima di tutto… da se stessi. Infatti, a voler essere onesti, il Tedesco fu solo marginalmente e come effetto secondario il nostro oppressore: il primo fu l’Italiano stesso, nella veste di Fascista. Sotto questo punto di vista si dovrebbe stabilire una continuità ideale tra l’8 Settembre e il 25 Aprile e celebrare entrambe le date come fondanti della nostra Repubblica; la quale dovrebbe poi avere come simbolo una bomba coll’ogiva in giù, in atto di precipitare, quale risvegliatrice di coscienze e liberatrice dell’Italiano da se stesso.

Nessuno strumento come una bomba sembra adatto a produrre un fulmineo mutamento nelle idee che albergano in un cervello, e forse solo una scarica elettrica è capace di produrre lo stesso risultato. Ma la scarica elettrica è per ora difficilmente applicabile per un’operazione di massa come fu il caso dell’Italia. La bomba, per l’assordante rumore e per le vibrazioni che produce, capaci di scuotere nel vero senso della parola la materia cerebrale all’interno della scatola cranica, e di riverberarsi di testa in testa, è invece lo strumento perfetto per far cambiare opinione a una popolazione. Quanto meno alla popolazione superstite, e in ciò i Giapponesi sono la prova.

Invece, per un curioso scherzo della memoria, in luogo dei bombardamenti la Liberazione evoca più facilmente la Resistenza e tutto il suo immaginario di fazzoletti rossi, di sentieri di montagna, di eccidi e di canti. Non è poi un mistero che il numero di partigiani in Italia crebbe magicamente di anno in anno, dal dopoguerra in avanti, toccando l’apice negli anni ’70, quando veniva da credere che a fine conflitto le montagne pullulassero letteralmente di costoro e che oltre certe quote vi fosse quasi difficoltà a muoversi, come avviene in certe stazioni di montagna in alta stagione, a causa del turismo. Gli ex-partigiani abbondarono particolarmente nel settore della cultura e delle arti, ove mi capitò di incontrarne parecchi persino negli anni ‘90, alcuni ragionevolmente credibili, altri del tutto improbabili. Al proposito ricordo il catalogo di un artista che non cito per discrezione da me conosciuto anni addietro. Nella biografia di costui, che era parecchio avanti negli anni (un innocuo vecchietto, diciamo) si poteva leggere: “Partecipò alla Resistenza, prima organizzandosi con alcuni amici; poi proseguendo da solo.”

Immaginate costui, che all’epoca doveva essere un ragazzino, insieme agli amici a formare una specie di brigata a sé stante, quasi una banda di strada, presumibilmente priva di armi, le cui missioni si dovevano risolvere in gavettoni e fiondate tirate proditoriamente ai tedeschi occupanti. E immaginate poi cosa dovette muovere lo stesso a “proseguire da solo”… Probabilmente bisticciò con il resto della banda. O semplicemente gli altri si erano annoiati e avevano cambiato gioco. Tale “proseguimento in solitaria” si sottrae comunque a qualsiasi immaginazione o raffigurazione… A meno che costui non si mise a fare la “staffetta”.

La staffetta è una figura pervasiva nella narrazione popolare sulla Liberazione. Il perché è presto detto: a voler dire di esser stati partigiani qualche maligno potrebbe sempre insinuar dubbi e domandare dettagli e prove: “E con quale brigata? Sotto quale comando? Registrato sotto quale nome?” Sembra impossibile ma la nostra Resistenza pur avendo albergato sui monti in stato di totale selvatichezza, ha tuttavia lasciato una documentazione.

Per sottrarsi a una eventuale richiesta di circostanziare i fatti, ecco venire in soccorso la figura della staffetta, la quale di per sé evoca una dimensione di indeterminatezza… Si colloca a metà strada tra civili e combattenti e fa da tramite, simile, a un Ermes, tra due mondi. Essa non combatte né resta inattiva, ma la sua stessa mobilità ne fa una figura ineffabile e segreta. La staffetta, sulla sua immancabile bicicletta, non si fa agguantare neppure dalla memoria, ed è capace di riapparire a guerra finita senza che nessuno l’abbia mai veduta o sentita ai tempi delle montagne. “Fui partigiano anch’io”. “Combattesti dunque? E dove e quando?”. “Non combattei, no…Ero una staffetta.”

Peraltro la figura della staffetta ben si adatta anche a chi, per ragioni anagrafiche, potrebbe difficilmente spacciarsi per un ex-combattente; cosicché un’intera generazione nata a metà degli anni trenta poté ovviare alla frustrazione di sentirsi esclusa da un’epopea e ricostruirsi un passato da padre/madre della patria, ricorrendo a questo espediente: la staffetta poteva benissimo (anzi doveva!) esser di età giovanissima all’epoca della guerra.
Qualche settimana fa una mia conoscente non pensò vi fosse meglio da fare che celebrare l’imminenza del 25 Aprile evocando l’attività di staffetta della nonna. Stavamo prendendo un caffè. Chiesi qualche particolare ma la narrazione si tenne sul vago, come si conviene alle storie di staffette.  Poi, qualche giorno dopo un amico mi raccontò commosso dell’attività staffettistica del padre. E ancora: davanti a un vinaio, sempre recentissimamente, udii uno stralcio di conversazione tra due uomini di età avanzatissima; uno dei quali descriveva all’altro gli affanni e le paure tra corse e scorribande notturne, tra echi di spari e urla in tedesco, nei tempi in cui era staffetta.

Chi legge queste righe faccia mente locale e veda se nella sua stessa famiglia non rinvenga almeno una staffetta e se non ritrovi la stessa situazione negli alberi genealogici dei propri conoscenti. A contarle, rimarremmo tutti sorpresi dalla quantità di staffette che correvano per i monti e le città italiane sul finire della guerra, in bicicletta o molto spesso a piedi, come veri maratoneti. Considerando il quadro che ne viene fuori non doveva esser evento raro l’essere investiti da codeste staffette che imperversavano ovunque: certamente, prima di attraversare una strada, chiunque guardava a destra e a manca per assicurarsi che non provenisse una staffetta a tutta velocità. Tempi lontani. Che oggi non riusciamo neanche più a immaginare.


Quin Quon Quang, Yun Zin Zeng

giugno 21, 2008

E’ un po’ di tempo che mi sto dedicando a un bizzarro quanto istruttivo esperimento; che è quello di sondare, tra gli artisti, i galleristi e i collezionisti, la padronanza dei nomi che compongono lo scenario artistico più importante e invasivo del momento. E si sarà capito che mi riferisco a tutto quanto proviene (o mostra di provenire) dall’inevitabile Cina. Ai periodici vernissages o quando si fanno due chiacchiere in studio, faccio la domanda a bruciapelo: “Fammi una lista dei dieci artisti cinesi emergenti più quotati!” Finora non m’è capitato di trovare una persona in grado di rispondere compiutamente.

“Quin Quon Quang, Quon Qui Quing, com’era più?… Zun Zin Zan, no…Zun Zun Zù…Insomma, quello lì, ci siamo capiti…E poi c’è quell’altro…Ha Yun Ya, Ya Ying, com’è che fa?” Questa sorta di farneticazione è quanto generalmente si ricava dagli interpellati sulla materia: viene in mente il pirotecnico Zang Tumb Tumb di Marinetti. Ancor più viene in mente il colonnello Kilgore di “Apocalypse Now”. In molti ricorderanno la scena in cui questo personaggio (interpretato da Robert Duvall) cercava di ricordare il nome di un villaggio che si accingeva a bombardare: “Come si chiama quel villaggio del cazzo? Vin… Vin Drin Drop…No…Rop…I nomi di questa fogna gialla si assomigliano tutti…”


Noi siamo la rivoluzione (ma solo in parte)

novembre 22, 2007

Qualche giorno fa (una settimana per l’esattezza: ma questi sono i ritmi di ‘Notti Attiche’) a Milano, sono stato presente all’inaugurazione della mostra curata da Michele Bonuomo per la Fondazione Mazzotta. La mostra è di quelle imperdibili, benché abbia per filo conduttore una stagione che incombe incessantemente sulla cultura artistica italiana e che può finire per venire in uggia. Per onestà occorre aggiungere che tale stagione ‘incombe’ a buon diritto: fu ricca e gloriosa, non solo nel nostalgico sentimento di chi la visse, siano essi galleristi, critici o collezionisti (e questi ultimi sono i più nostalgici), ma anche per chi oggigiorno opera nel settore; ché su quel periodo storico ancora ci si puntella, vi si attinge, se ne copiano i vezzi e il linguaggio.

Della mostra ho ricordi frammentari perché, nel visitarla, il già detto sentimento di uggia ha stupidamente prevalso sull’interesse che le opere e l’allestimento meritavano di suscitare; e benché da più parti sia stato esortato a soffermarmi sui pezzi con più attenzione, ho finito per seguire un itinerario del tutto personale, insieme svagato e disordinato. In tanta mia personale somaraggine, m’è però rimasta memoria di splendidi ritratti di Lucio Amelio, che mirabilmente restituivano l’energia del personaggio: un misto di classe e vitalità intellettuale. Così, almeno, l’ho sempre udito descrivere da chi lo conobbe personalmente.

A più oscure divagazioni mi hanno condotto le opere di Joseph Beuys. Costui è ormai universalmente consacrato come un colosso nella storia dell’arte dell’ultimo mezzo secolo; né si può dissentire da tale unanime opinione, a meno d’esser forniti degli strumenti teorici per risistemare criticamente tutta la storia dell’arte del Novecento. Strumenti ch’io non posso vantare e che, se anche possedessi, non impiegherei in un blog. Mi permetto solo di dire che l’icona di Beuys, così monoliticamente carismatica, rappresenta per me il simbolo dell’uggia di cui vagamente parlavo; e che ogniqualvolta mi trovo di fronte quel volto di pietra, quel cappello di feltro e quelle pupille ipnotiche, non posso fare a meno di provare una leggera irritazione. Leggi il seguito di questo post »


La resa di Breda e la bellezza delle ‘masse’

luglio 19, 2007

Siccome questi ultimi mesi ho soggiornato spesso a Milano, per periodi più o meno brevi, sarebbe stato naturale trovare le ‘Notti Attiche’ aggiornate sulla vita artistica milanese o, perlomeno, sulla incessante attività espositiva di cui è capace questa città. Chi seguiva (e segue) questo blog avrà invece notato come io mi sia eclissato, quasi fossi stato fagocitato dalla metropoli lombarda, o mi fossi perso chissà dove nei suoi meandri culturali (vedi: ‘Edificio Sedici’) se non addirittura nel suo frenetico sottosuolo. I motivi del mio silenzio sono stati banalmente due: il primo è riconducibile a un ‘principio dell’oste’ che ho già più o meno enunciato nel mio post su Artefiera di Bologna. Il secondo è che la persona che mi ospita durante le trasferte milanesi si bea d’esser sprovvisto, aristocraticamente, sia di connessione in rete che di computer (e addirittura di televisione, ora che io gliel’ho rotta); il che mi impedisce di collegarmi a ‘Notti Attiche’ con continuità.

Riprendo ora il filo delle divagazioni segnalando la mostra di Thomas Struth che sta per chiudersi (il 27 Luglio, per l’esattezza) alla galleria milanese di Monica De Cardenas: vi ho fatto visita la settimana scorsa, deliziandomi dell’atmosfera metafisica che si coglie alle mostre quando sono prossime alla chiusura, e ancor più quando cadono o sconfinano nel periodo estivo. Peraltro la galleria De Cardenas, a differenza di molte gallerie milanesi, non si trova nel cortile interno di un palazzo, ma in un appartamento; a cui si giunge per una rampa di scale che pare fatta apposta per sgombrare il cervello da ogni idea di arte o di ‘artisticità’. La quale è, a mio avviso, la condizione migliore per godere delle opere d’arte.

Le grandi fotografie di T. Struth ritraggono famosi capolavori d’arte nell’atto d’essere osservati dai gruppi eterogenei degli abituali visitatori dei musei (in questo caso si tratta del Prado e dell’Ermitage). Alcuni degli scatti sono eseguiti in modo tale che l’opera d’arte non appare visibile, quasi quest’ultima stesse ammirando il suo pubblico ‘in soggettiva’. Come Struth abbia ottenuto tale tipo d’immagini e come abbia mimetizzato le sue ottiche in modo da non influenzare l’atteggiamento degli ignari turisti m’è stato spiegato dal direttore artistico della galleria. Non riporto qui la procedura, temendo di non aver ben compreso il marchingegno: dico solo che si tratta di un sistema di schermi e paratie che nascondono la macchina fotografica, pur consentendo all’artista di controllare l’attimo dello scatto.
Fatto sta che queste foto sono capaci di elargire curiose suggestioni e spunti per interminabili divagazioni, non solo sul rapporto tra opera e fruitore o sulla famigerata questione della ‘riproducibilità’, ma anche, a chi come nel mio caso è appassionato di Velàzquez, su alcuni aspetti di questo pittore che non m’erano mai apparsi così lampanti. Dico questo giacché alcuni degli scatti di T. Struth, e a mio avviso i più interessanti, hanno per soggetto famosissime opere di Velàzquez, tra cui ‘La resa di Breda’, ‘Las Meninas’ e ‘Las Hilanderas’. Leggi il seguito di questo post »


Edificio Sedici…

Maggio 15, 2007

Se volete uccidervi dalle risate andate a questo sito, segnalato dall’ottimo Slipperypond. Per una spiegazione della faccenda e per i commenti al proposito rimando allo stesso Slipperypond (e qui lo dico: dovessi rinascere vorrei essere slipperypondiano). Mi limito a rimarcare che nel filmato con cui si apre il sito dell’Edificio Sedici, il venditore, a un tratto, schiaccia rumorosamente qualcosa per terra: immediatamente viene in mente uno scarafaggio, ma io avanzo l’idea che si tratti dei residui d’uno spettro (marxianamente inteso) di un operaio della Breda.


‘Looking for time’ e altre divagazioni

Maggio 14, 2007

Alla galleria Francesca Kaufmann di Via dell’Orso (Milano) sta per terminare l’interessante personale di Maggie Cardelùs, Looking for time. Ho avuto modo di visitare la mostra qualche giorno fa, mentre mi trovavo nella città meneghina o della madonnina che dir si voglia. Mi verrebbe da dire nella città delle zanzare, visto che la prima notte del mio soggiorno milanese sono stato assalito da torme di piccole zanzare nere. E qui si apre una divagazione: per tutta la notte passata a lottare coi minuscoli vampiri m’è echeggiato in testa il verso di una poesia francese di Eliot (Lune de miel):

On rèleve le drap pour mieux égratigner

Sebbene i due sposini del componimento di Eliot non da zanzare fossero tormentati, ma da cimici (‘punaises’), non fa differenza per quanto riguarda la percezione dello stato d’ostilità e desolazione dei tempi moderni. In altri versi della stessa poesia Eliot dice (anzi, canta):

Ils vont prendre le train de huit heures
Prolonger leurs misères de Padoue à Milan

Mi son sempre chiesto se la moglie di Eliot non avesse iniziato a covare la sua follia durante il romantico viaggio (1911) che ispirò questo componimento. Nel mio caso chi mi ha ospitato, che è persona squisita, ha provveduto a rifornirmi d’un diffusore elettrico Baygon, del tutto inodore e capace di sterminare zanzare per 48 ore di fila. A voler tirare in ballo i correlativi oggettivi c’è da domandarsi quali scenari allegorici apra un diffusore elettrico d’insetticida, il quale se libera dal fastidio delle zanzare (o delle eventuali ‘punaises’) non seda (l’ho sperimentato) l’ansia da waste land; anzi, l’accresce. Tanto che sull’azione di infilare il detto diffusore nella presa e di ruotarlo finché si veda accesa la spia rossa, si potrebbero scrivere versi sicuramente emblematici. Per concludere: le zanzare (o le ‘punaises’) non sono in sé responsabili della desolazione, così come non lo è l’insetticida né i danni alla salute eventualmente provocati dall’insetticida. Ammesso che si possa parlare di una ‘nequizia de’ tempi’ e che non sia questa percezione da imputarsi a sistemi nervosi eccessivamente fragili, i responsabili di tale stato di cose sono a tutt’oggi irrintracciabili e indefinibili.

Tornando alla mostra della Cardelùs, tra le opere esposte (si tratta di video) segnalo in particolare Mervyn, an expanding portrait. Per comodità, riprendo il comunicato stampa:

Mervyn, an expanding portrait è un ritratto fotografico presentato in una cornice digitale collegata via cavo a un sito internet. Il funzionamento dell’opera è regolato da un vero e proprio contratto, con cui l’artista si impegna – fino alla propria morte – a inviare immagini dal sito alla cornice digitale. Una stampa cartacea della prima immagine è conservata nel cassetto inserito nella base della cornice, mentre le immagini successive – il cui ritmo e contenuto è stabilito unicamente dall’artista, in quanto la cornice è un semplice terminale – contribuiranno ad espandere il ritratto di Mervyn, che attualmente è un bambino. L’ultima immagine inviata dall’artista prima della propria morte sarà poi conservata nel cassetto insieme alla prima, e a quel punto la cornice si spegnerà definitivamente.
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All’origine della pazzia di Van Gogh: il piombo, la pipa e altre ipotesi

aprile 25, 2007

Qualche post fa ho citato un ‘Autoritratto con la pipa’ di Courbet. Parlando di pittori con pipa annessa non può evitare di balzare alla mente Vincent Van Gogh, il quale fu notoriamente un grande fumatore, tanto che spesso preferiva il fumare al dipingere, come scrisse in una lettera all’amico Bernard: “I quadri più belli sono quelli che si sognano fumando la pipa a letto, ma che non si fanno.” Tra parentesi, informo che la ditta ‘Ser Jacopo’, tra i massimi esponenti dell’artigianato pipario pesarese, ha in produzione una linea di pipe intitolata proprio al maestro di Groot-Zundert; le forme si ispirano a quelle delle pipe esibite da Van Gogh nei suoi quadri e non sono prive di fascino, benché inadatte al passeggio o alla vita sociale, a meno di non voler apparire degli eccentrici o dei matti. Son pipe da fumarsi a letto, all’uso di Van Gogh.

V’è una diceria popolare (ma prima o poi verrà avvallata dalla scienza medica) che sostiene il fumare sdraiati sia dannosissimo per l’organismo: qualcuno l’avrà senz’altro sentito dire dai nonni o dai propri genitori. A me è capitato, almeno finché le mie fumate erano sotto gli occhi di chi, avendomi messo al mondo, si sentiva chiamato a tutelare la mia salute; attualmente a protestare è la mia compagna, ma solo quando esagero (sia nel fumare che nello star sdraiato).
Van Gogh, abbandonato a se stesso nella solitudine di Arles, disattendeva tutte le più elementari norme igieniche e salutistiche, non solo per quanto riguarda la pipa e il fumare a letto, ma anche per quanto concerne l’ormai famigeratissimo e velenosissimo piombo. E v’è chi è convinto che l’origine della romantica pazzia di Van Gogh non vada ricercata in nebulose tensioni artistico-spirituali, ma nell’esiziale cocktail di piombo e pipa; cui va aggiunto, a condimento, l’immancabile assenzio.

Fortunatamente, oggigiorno (direbbe Piero Angela), basta fare un giro in rete per essere informati circa i rischi connessi all’accessoristica classica del pittore (oltre al piombo, pipa e alcool) e per non incorrere nei problemi mentali cui fu soggetto il povero Vincent: giusto perché non ci si trovi, di punto in bianco, a tagliarsi un orecchio senza sapere il perché. Si può cominciare dall’infallibile Wikipedia, che al check-up di Van Gogh ha riservato un’intera voce (‘Vincent Van Gogh’s medical condition’); ove, tra i vari paragrafi dell’anamnesi medica, la pipa è indicata come una possibile concausa delle patologie dell’artista:

He was never without his pipe and smoked it even on his deathbed, and he admitted on several occasions that he smoked too much Leggi il seguito di questo post »


Il copia e incolla

aprile 12, 2007

Ieri ho letto un’affermazione spassosa. Che avrei commentato sul sito ove è apparsa, se non mi fosse venuto timore di apparire invadente; o di destar l’impressione ch’io sia mosso da intenti persecutori nei confronti dello stesso sito e dell’amico che lo gestisce. Avendo un mio spazio, mi son detto, ed essendo questo orgogliosamente autistico e divagante, per una volta farò i miei commenti tra le mura di casa; giusto per rileggermeli e far due risate tra me e me, come i matti, nei momenti di noia. Né s’allarmi il mio amico pensando ch’io intenda d’ora in poi privare il suo sito delle mie esternazioni: sempre sono e sarò il commentatore ufficiale di ‘Mastroblog’.

La sentenza che ho trovato comica viene da un esimio studioso anglofono, tal Derrick De Kerckhove, già collaboratore di Marshall McLuhan e ora direttore del ‘McLuhan program’ dell’Università di Toronto; col quale l’amico Mastrolonardo ha avuto occasione di chiacchierare in un’intervista apparsa originariamente su ‘Il manifesto’ del 5 Aprile e in seguito riportata su Mastroblog. Va perciò chiarito che la mia ilarità non è da riferirsi alla persona o all’operato dell’impeccabile Mastrolonardo, essendosi limitata la sua azione a sottoporre il De Kerckhove ad alcuni quesiti; cosa che non rende l’amico giornalista responsabile delle risposte. Peraltro lo stesso Mastro così ha definito il soggetto: “spiazzante e laterale rispetto alle opinioni dominanti.”
Ma ecco la frase (o meglio, le frasi) cui mi riferivo: Leggi il seguito di questo post »


La Ragione ha sempre ragione

aprile 6, 2007

L’ormai famoso, e a questo punto direi glorioso, bannato di Notti Attiche m’ha segnalato un articolo che voglio sottoporre alla mia sparuta platea (e dello ‘sparuto’ spero non s’offenda nessuno). Come avrà fatto a segnalarlo costui, si chiederà ora la sopraddetta platea, se è bannato? Semplicissimo: a mezzo d’un comune messaggio di posta elettronica, che m’è arrivato qualche giorno fa e che non avevo ancora aperto. Donde il ritardo con cui ora fornisco il rimando.
Ciò sia anche detto a tranquillizzare chi abbia pensato che Notti Attiche possa generare dell’astio o che sia causa di screzii insanabili. Peraltro rivelo qui che trattasi, il bannato, d’un amico, e d’uno tra i mei più intimi. A significare quanto siamo intimi dico solo che posso disporre a mio piacimento del suo conto bancario.
Le segnalazioni dell’amico bannato sono comunque sempre interessanti e chi abbia aperto il ‘rimando’ (si sappia che d’ora in poi di ‘link’ non voglio più parlare) se ne sarà accorto. Costui rimane comunque bannato, ché così ci siamo accordati: egli stesso dichiara di trovarsi a suo agio in tale posizione.

Nell’articolo in questione si parla della Ragione: niente po’ di meno. Marco me l’ha segnalato avvertendomi che tale scritto è da prendersi sul serio, ma solo fino al paragrafo che ha per tema la rivoluzione; e che, da quel paragrafo in poi, egli se ne dissocia. Con quest’intesa l’ho letto e ho tentato di trarne qualche beneficio.
Devo però a questo punto confessare una cosa che non mi fa onore; e cioè che quando leggo la produzione d’un autore mediorientale come è questo Abdolkarim Soroush, tendo a non darvi troppo peso. Colpa di ciò è da attribuirsi a un diabolico immaginario che non riesco a scacciarmi di testa e che mi fa associare tutti i mori, circassi, persiani, arabi o affini, a raffigurazioni che stanno a metà tra i camuffati di ‘Così fan tutte’ e gli improbabili personaggi di Pulci e di Boiardo, coi loro strampalati nomi d’Agramante, Mattafolle, Smargiasso, Rodomonte, Argalifa od Ismeno (vabé, quest’ultimo è del Tasso…). Né, parlando di culto, riesco a convincermi che in ‘Sorìa’ s’adorino altre entità che ‘Trivigante’ e il ‘dio Macone’. Perfino quando sento discutere d’una faccenda seria quale è la conseguenza delle politiche imperialiste occidentali, ovvero il terrorismo islamico, non può fare a meno di balzarmi alla mente l’Argalifa, a cavalcioni d’una giraffa e armato d’un gran martello…intento a spiaccicar cristiani a destra e a manca. Leggi il seguito di questo post »


Gustave Courbet e l’Idiota di Dostoevskij

aprile 3, 2007

Torno a cose serie: ierlaltro mi sono recato in libreria per acquistare ‘Vecchi maestri’ di T. Bernhard, testo consigliatomi, insieme ad altri di questo autore, da un amico artista. Essendo Bernhard scrittore mitteleuropeo non mi sono stupito di trovarlo tra le edizioni Adelphi, cosa che mi ha fatto immediatamente allarmare circa il prezzo. Che si è poi rivelato di soli 13 euro. La copertina è però d’una tinta deprimente: scriverò a Edmondo Berselli per lamentarmene…
A spiegazione di quest’ultima apparente corbelleria informo i distratti che recentemente Berselli in ‘Venerati maestri’ ha scritto formidabili pagine sulle edizioni Adelphi. Io, perlomeno, le ho trovate molto divertenti.
A ogni modo, ho acquistato il libro (intendo: il ‘Vecchi maestri’ di Bernhard, non il ‘Venerati maestri’ di Berselli) che puntualmente si è rivelato bellissimo: dico ‘puntualmente’ giacché chi me n’ha suggerito la lettura è persona di intelligenza sopraffina. Direi chi è, ma essendo costui artista noto, non voglio dare impressione di volermi vantare di praticarlo; peraltro lo conosco da pochissimo tempo.

Mentre mi aggiravo per la libreria frugando qua e là, ho scorto un’edizione economica Feltrinelli dell’Idiota di Dostoevskij. Sulla copertina del volume era riprodotta l’immagine d’un famoso autoritratto di G. Courbet, quello, per intenderci, in cui il pittore si raffigurò nelle spoglie d’un cavaliere ferito o dormiente che dir si voglia. La distinzione non è facile a stabilirsi dato che, trattandosi questo d’un autoritratto, e mostrando talvolta Courbet nei suoi quadri un’espressione da addormentato, sussistono dei dubbi circa il soggetto dell’opera in questione. Riguardo l’espressione intontita di Courbet è da prendersi a riferimento l’ ‘Autoritratto con pipa’ del 1849, in cui l’artista mostra d’essersi voluto cogliere in un momento di seminarcosi. Va detto al proposito che la pipa può indurre uno stato di obnubilamento e di torpore, tanto che il premio Nobel J.M. Coetzee ne descrisse gli effetti sulle popolazioni nere del Sudafrica; le quali sembra fossero tenute a bada dai coloni Boeri a mezzo di sapienti elargizioni di pipe e tabacchi (Coetzee parla della faccenda nella seconda novella di ‘Terre al crepuscolo’). Leggi il seguito di questo post »


Outsourcing literature: quattro chiacchiere con Rob ‘manga’ Eliot

marzo 26, 2007

Era uno dei quattro ragazzi terribili di Blenhaim Street negli anni ’90, in quella factory, nota come la HH (Hole House), che fu il crocevia di tutte le più strepitose idee che attraversavano lo scenario underground (e untermensch) alle soglie della web revolution. Poi sconvolse gli ambienti liberal della West Coast con le sue performances. Oggi Rob ‘manga’ Eliot, due figli, vive in una sorta di cottage giusto fuori Newcastle, U.K.. Ma è ancora un guru per chiunque non voglia restare a mangiare la polvere quando già si delinea all’orizzonte la frontiera del web 4.0.
Con qualche fatica sono riuscito a intervistarlo a proposito di quello che è ormai da anni, e sarà sempre di più, il terreno caldo della produzione letteraria: parlo dell’ ‘outsourcing book’ o ‘outsourcing literature’. Ne ho discusso con Rob (provocandolo anche un po’) partendo proprio dalle due differenti definizioni. L’intervista in lingua originale sarà presto disponibile in podcast.

Che differenza c’è tra ‘outsourcing book’ e ‘outsourcing literature’?
Rob: Nessuna…erano due definizioni diverse che circolavano sei o sette anni fa per dire la stessa cosa: la prima era più in voga dalle parti di Park Avenue, tanto per capirci…
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Casti, Leopardi, Lippi e le vere meraviglie del web

marzo 11, 2007

V’è un poeta che, ogni qual volta mi capiti di citarlo, fa cadere la gente dalle nuvole. O rivela come io viva tra le nuvole: parlo di G.B. Casti (Acquapendente, 1724-Parigi, 1803) una delle più brillanti personalità nel Parnaso di fine Settecento. Colpevoli il Romanticismo e la cronica esterofilia italiana, questo libero ingegno (un ‘democrate’, secondo Napoleone) già poeta cesareo, non trova luogo neppure in un cantuccio dell’ideale ‘canone’ italico e se n’è persa traccia anche nella comune memoria letteraria. Che i letterati italiani diffidino dei ‘poeti cesarei’ a causa del Metastasio è comprensibile e scusabile; meno lo è che si siano convinti essere il wit una esclusiva prerogativa britannica e lo spirito libertino o la satira storica appannaggio dei Francesi. Fatto sta che il povero Casti è pressoché caduto nel dimenticatoio, dando ragione a quel disincantato pessimismo circa il riconoscimento letterario che pervade i ‘Detti memorabili di F. Ottonieri’ di Giacomo Leopardi.

Sul quale ultimo ci sarebbe però da ridire, collocandosi costui tra quanti hanno contribuito al misconoscimento dell’autore in questione: in quella sorta di piccolo ‘canone’ leopardiano che è la ‘Crestomazia italiana’ non compare un solo verso di Casti, benché a questi il Leopardi fosse debitore per l’ideazione dei ‘Paralipomeni della Batracomiomachia’. Debito mai ammesso dal famosissimo gobbetto (mi mancava un termine per evitare la ripetizione del nome, e non mi piaceva dir ‘recanatese’), il quale, tra i suoi abbozzi e disegni letterari, lasciò un appunto che potrebbe finir per ritorcersi contro il Leopardi stesso:

“…facilità d’imitare, occasione di parlarne sarà la Batracomiomachia, imitata dal Casti…”

Una delle opere maggiori di Casti fu proprio il poema ‘Gli animali parlanti’ cui Leopardi allude: testo orwelliano ove in animalesca allegoria viene rappresentata l’evoluzione politica dell’umanità. Altro capolavoro lasciatoci è il ‘Poema tartaro’, che è una rappresentazione causticamente satirica della corte di Caterina di Russia. Della quale il Casti fu ospite; e sottolineo, en passant, l’ ‘internazionalità’ dell’autore, che conobbe le più importanti corti e capitali europee della sua epoca. Per avere una patina d’assoluta modernità gli mancò solo di morire a New York, come l’amico-rivale Lorenzo Da Ponte.

Dello stato di disgrazia del Casti mi feci in passato un cruccio (scherzi del sistema nervoso…) così come del fatto che le sue molte opere furono pochissimo ristampate. Tanto che, volendo leggerle con agio e interamente, tempo fa me ne procurai un’edizione completa datata al 1821; dico ‘me ne procurai’ e non ‘comperai’, perché di detta edizione mi impossessai con peccatorio metodo; cioé: l’ho rubata. Attualmente mi pare che ristampe in circolazione non ve ne siano: l’ultima, se non erro, è quella del 1987 curata da L. Pedroia per Salerno Edititrice. Si tratta peraltro del solo ‘Gli animali parlanti’ e non dell’opera omnia.

Mi è stato però motivo di conforto scoprire che in rete è gratuitamente disponibile un’edizione in pdf de ‘Gli animali parlanti’, nonché d’altre produzioni castiane. Delle meraviglie del web viste da me fino ad ora è questa la più notevole, e una delle poche che mi abbiano saputo convincere che la telematica sia un effettivo progresso per l’umanità. A questa scoperta aggiungo un’altra forse ancor più entusiasmante e che riguarda parimenti un’opera letteraria introvabile se non in rare ristampe o costosissime edizioni antiche. Si tratta del ‘Malmantile racquistato’, poema eroicomico di L. Lippi (Firenze, 1606-1665).

Lippi, noto letterariamente sotto il nome di Perlone Zipoli, fu anche pittore; che è il motivo del costo esorbitante delle più antiche edizioni del ‘Malmantile’. L’autore incautamente corredò il suo poema di pregevolissime acqueforti, le quali per i bibliofili sono ben più attraenti del testo e dei suoi contenuti. Delle più vecchie edizioni del ‘Malmantile’, da mia esperienza, è anche impossibile far furto, giacché generalmente non vengono lasciate dagli antiquarii alla libera consultazione, ma serbate in vetrina sotto la protezione di robusti lucchetti.
Comunque, oggigiorno, per spulciare nel ‘Malmantile’ (vera miniera di sentenze popolari e motti vernacolari) non ci si deve dannare in vane ricerche di ristampe o anastatiche né commettere un reato o, peggio ancora, chiudersi in biblioteca: sul web sono disponibili alla lettura ben due (due!) testi completi. E pazienza se non contemplano le famose acqueforti.

Per quanto riguarda il giudizio su questo strampalato poema, lascio decidere a chi l’ha letto o lo leggerà. Io l’ho sempre trovato degnissimo ma, trattandosi il Lippi d’un pittore, la mia è una critica di parte.


Mercanti d’aura

febbraio 23, 2007

Lasciamo perdere l’uomo della strada (e anche qualcuno dell’attico) che è inamovibile da un’asinina recalcitranza di fronte all’Arte contemporanea… ma se al cospetto di tale materia a qualche intellettuale capiti di perder la bussola, o a qualche ‘operatore artistico’ di affogare, v’è in libreria un testo che costituisce un salvifico strumento d’emergenza per tornare a orientarsi e a galleggiare: si tratta di ‘Mercanti d’aura’ di A. Dal Lago e S. Giordano, libro edito dal Mulino e in circolazione da qualche mese.
Né escludo, e non lo escluderanno gli autori, che da tale opera possa trarre ammaestramento perfino il caparbio uomo della strada: con uno stile mai involuto (quasi divulgativo), e pure non privo di spessore concettuale, in ‘Mercanti d’aura’ è spiegato l’abicì (anzi: ‘il bi e il ba’, per dirla con Nino Frassica) dell’arte contemporanea. Cosa ammirevole se si considera che, per abbozzare una spiegazione al riguardo, occorre districarsi in un garbuglio fatto di cornici, controcornici, metacornici e metagiochi; di autoriflessività e fughe dall’arte; e poi di convenzioni, superamenti e negazioni. Il tutto passando dai turbamenti di Benjamin ai cinismi di Warhol o alla sicumera di Gombrich. Materiale che, a volerlo sceverare in un libro, anziché finire per illuminare il lettore potrebbe far entrare in stato confusionale lo scrittore stesso.

Non è il caso degli autori di ‘Mercanti d’aura’, che tengono salda la rotta fino ad approdare a conclusioni che si possono definire rassicuranti sia per gli entusiasti del corso preso dall’arte da un secolo a questa parte, che per gli scettici: i primi avranno conferma d’esser sul binario giusto, i secondi verranno tranquillizzati su ogni ansia, che sia di natura ermenutica o politica, e condotti passo passo a comprendere come l’arte attuale proceda secondo una formula di ‘scambio’ che sempre è esistita e che è il fondamento dell’umana cultura. Insomma, l’arte è ancora Arte; anche se dell’opera non è rimasta che l’aura e se l’artista, in quel il farraginoso meccanismo di packaging che è l’arte attuale, finisce per esser quasi d’intralcio.
I più ostinati e politicizzati, se ancora volessero protestare, vengono poi avvertiti che qualsiasi tentativo di critica o di opposizione al marchingegno dell’arte contemporanea è destinato a essere inglobato nelle sue metacornici, meta-giochi o meta-aure; e perciò a fallire. Una sorta di cooptazione alla famigerata ‘autoriflessività’. Peccato che in letteratura l’ ‘autoriflessività’ non sia più di moda, ché tale sorta di trappola verrebbe comoda anche nel campo delle lettere: magari utilizzando il web, che si presta.

Comunque, l’assunto di ‘Mercanti d’aura’ è che l’opera d’arte non abbia un valore intrinseco. Tale idea non viene presa in considerazione se non attribuendola alla categoria degli stolidi pregiudizi dell’ ‘uomo della strada’: spettro che appare qua e là per il testo nella persona d’un frequentatore dell’Università per la terza età, le cui convinzioni sono prese a paradigma d’insipienza e ad esempio di ciò che un intellettuale è chiamato a combattere. Peraltro, in questo caso, non si tratta d’una maschera o d’una figura esemplare sul modello della morettiana ‘casalinga di Treviso’, ma d’una persona cavata dalla realtà: uno dei due autori del libro, che ha professato all’Università della terza età, si trovò un giorno a dover spiegare l’ ‘orinatoio’ di Duchamp al detto signore in carne e ossa. Il quale ignorava d’esser destinato a trasformarsi in un nuovo exemplum abiectionis. Pare che l’individuo, posto di fronte all’orinatoio, si sia prodotto in un moto d’indignazione che sfociò in un accesso d’ira precordiale. Solo le pazienti delucidazioni del docente riuscirono a placare l’untermensch e a fargli infine, se non avvallare, almeno accettare l’idea del ‘ready made’.

Diversamente che nell’immaginario dell’ ‘uomo del man’, nell’opera di Dal Lago e Giordano non v’è spazio per i misticismi: “Noi crediamo quindi che l’arte debba essere vista in modo laico…” La qual fede si pratica, pare d’intendere, facendo confusione tra l’aura e il ‘simulacro’ cui è ridotto ogni prodotto nel sistema capitalistico; il tutto nell’ambito di un cortocircuito concettuale che trasforma il ‘valore di scambio’ in trascendenza e, se non si fa attenzione, può riportare dritti sparati a Hegel. Peraltro, fa capolino in questo testo un’idea programmatica che è spesso abbracciata da chi abbia abbandonato le velleità eversive, ma non del tutto Marx: ovvero che, dopo il fallimento della Rivoluzione e stante il proposito di non più cimentarvisi, l’unica maniera di sconfiggere il ‘sistema’ sia d’assecondarlo in tutto e per tutto:

“Tramontata la possibilità che i produttori divenissero artisti, e questi partecipassero a una qualche trasformazione della vita sociale, l’arte si identifica col capitalismo, di cui diviene l’espressione culturale più coerente. Che cosa può fare l’artista in questa situazione? Immaginarsi una volta di più, pateticamente, la fuoriuscita dalle cose? Oppure andar fino in fondo?”

Ma sì, andiamo fino in fondo…E qualche santo sarà…

Update:ovviamente in rete s’era già parlato della cosa: segnalo quest’ottima recensione.


Il pop e la complessità: un aggiornamento (ai ritmi di ‘Notti Attiche’)

febbraio 18, 2007

Qualche post fa, a seguito di un link fornito da un amico dispettoso (nel senso che ha il mondo ‘in gran dispitto’), avevo divagato intorno a un articolo di Wu Ming 1 ove si parlava di ‘popular culture’ e ‘complessità’. Informo chi fosse stato intrigato dall’argomento che quell’articolo costituiva il primo d’una serie di tre, attorno ai quali è sorta in rete una vivace discussione: tanto che la materia elaborata dai Wu Ming è ormai nota come ‘il trittico sul pop’.
Fornisco qui di seguito i riferimenti utili a chi volesse rintracciare tutto il dibattito, a cominciare dal sito Carmilla che ha inserito anche le ‘attiche divagazioni’ nella lista dei commenti alla questione (e ringrazio dell’attenzione): su questa pagina si trovano tutti i link necessari a ricomporre il ‘trittico’ wuminghiano, nonché altre segnalazioni. Tra i siti che hanno ospitato la discussione sul pop v’è poi quello dei lotofagi (come mi piace questo nome…) e Lipperatura. Peraltro già linkati da Carmilla.

Non c’entra, ma, parlando di Carmilla, segnalo (in ritardo, come da aulogellica tradizione…) anche questa recensione. Giusto perché sono un estimatore di Giacon (da qualche parte ho anche la spilletta: ‘comprate un Giacon’…)

Tornando al famoso ‘trittico’: chi si aggiorni sulle ultime due uscite si accorgerà che la materia è stata sviluppata rispetto a quella abbozzata nel primo articolo dei WM. Tanto che alcune delle obiezioni da me sollevate a quello scritto sono state ‘superate’ dagli autori del detto trittico; altre restano, a mio avviso, valide. Sempre a mio parere, il meglio riuscito è il terzo degli articoli apparsi ove, tra le altre cose, viene stabilito un parallelo tra le odierne modalità di comunicazione e la cultura rapsodica della Grecia antica (sì, è vago…ma nell’articolo si trovano indicazioni più specifiche), nonché tra alcune strutture narrative dell’epica e certe tipiche della contemporanea cultura ‘pop’….
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Non avevo detto nulla su Artefiera. Ma l’autentico mistero resta il panino…

febbraio 15, 2007

Qualcuno continua a domandarmi perché non abbia scritto un post su Artefiera di Bologna, visto che un paio di settimane fa (o di più?) ho fatto anch’io il doveroso pellegrinaggio. Data la tempistica delle recensioni di questo blog, sarebbe questo il momento ideale per scrivere qualcosa, magari stabilendo un nuovo record. Persevererò invece a non dirne nulla; un po’ per pigrizia, un po’ perché la materia è stata ampiamente trattata da voci più autorevoli, un po’ perché non sarebbe elegante ch’io mi pronunciassi sull’operato di galleristi ed artisti, sia nel caso d’elogi che di critiche: i primi potrebbero apparire interessati, le seconde mosse da malvolenza nei confronti di colleghi. Aggiungo che questo blog, come recita il sottotitolo, ha per campo le ‘divagazioni a braccio’: categoria in cui la mia visita a Bologna non rientrava, essendo stata non una divagazione ma una spedizione mirata.

Chiarito questo (avrei potuto esplicitare più stringatamente la cosa dicendo: “Io non ne so nulla, io fo l’oste…”) e attenendomi alle divagazioni, ci sarebbe invece da ricamare e interrogarsi sulla paternità d’un verso che mi frulla sempre in testa tutte le volte che metto piede a Bologna. Si tratta d’un endecasillabo sdrucciolo, a metà tra il ridicolo e il pomposo, che la mia mente cava non so da dove; e che così suona:

Gino, che fai sotto i felsinei portici?

Nella mia ultima visita, benché non abbia avuto neppure il piacere di vagare sotto i ‘felsinei portici’, questo verso m’ha cantilenato comunque in testa per tutta la giornata. Chi ne ricordasse l’autore (che dev’essere famoso), m’informi. A scopo d’esorcismo.

Tornando alle fiere dell’Arte, siccome oggigiorno i varii saloni e saloncini si sprecano, dalla metropoli al paesone, non mancherà comunque occasione di parlarne: chiaramente, fatto salvo il ‘principio dell’oste’.
Benché tali mostre-mercato permettano di avere un comodo colpo d’occhio su parte della produzione artistica attuale e sull’attività delle gallerie, non ho comunque simpatia per questo genere di manifestazioni. Le quali, e non solo a mio avviso, stanno distruggendo gli ultimi resti d’una socialità che costituiva, fino a qualche decennio fa, il tessuto umano su cui si reggeva la vita delle gallerie, degli atelier e delle collezioni. Peraltro, lagnarsi di tale sorta di ‘Castoramizzazione’ o ‘Ikeizzazione’ dell’ Arte non serve a nulla, dato che non vi sono colpevoli da individuare. Trattasi d’inarrestabili meccanismi globalizzanti. O almeno, così si mormora pur tra i galleristi più vecchi (e scontenti della cosa).

Al di là delle mie angoscie sul ‘local’ e l’Arte, la mia visita ad Artefiera m’ha confermato come la scena artistica si dibatta oggigiorno in un dramma non dissimile da quello vissuto dai protagonisti di ‘Viaggi di nozze’ di Carlo Verdone. Dramma sintetizzato, sul finire del film, dall’interrogativo posto dal trucido Ivano sotto un cielo stellato. E che, più o meno così suonava: “A rega’…Ma oggi che deve da fa’ uno pe’ esse’ veramente strano?”

S’è già visto tutto. Ma qualcosa di nuovo, siamone certi, apparirà. Per il momento, dichiaro d’aver trovato alla fiera di Bologna un oggetto in grado di surclassare, quanto a ‘stranezza’, la più audace e perversa delle produzioni artistiche. Mi spingo fino a dire che di fronte a tale oggetto ho avvertito uno smarrimento estatico e intellettivo paragonabile a quello che si proverebbe di fronte al misterioso monolite di Kubrick: parlo del panino che era in vendita al bar per gli espositori. Tra me e me mi sono lungamente interrogato circa la materia di cui era costituito, a partire dal pane. Il quale non era simile ad alcuna sostanza vista o toccata in questo mondo. Riguardo la farcitura, poi, m’appello al principio lovecraftiano dell’innominabilità e indicibilità di ciò che è Alieno.
Anche la barista, interrogata al proposito, non ha saputo fornire chiarimenti circa la natura e la provenienza di quello strano ente: “Ce li mandano così…” è stata la sua unica dichiarazione. Terrorizzata, con un cenno tra il supplichevole e l’autoritario, ci ha poi intimato di non sottoporle altre questioni.

Dato che, come ho detto, questo tipo di panino era quello disponibile al ‘bar per gli espositori’, mi domando come i galleristi si siano regolati durante i cinque giorni di Bologna; ché convivere con un tale enigma e, per di più, nutrirsene non dev’essere facile. Noi, pur non essendo espositori, il nostro lo abbiamo comunque mangiato…