Noi siamo la rivoluzione (ma solo in parte)

Qualche giorno fa (una settimana per l’esattezza: ma questi sono i ritmi di ‘Notti Attiche’) a Milano, sono stato presente all’inaugurazione della mostra curata da Michele Bonuomo per la Fondazione Mazzotta. La mostra è di quelle imperdibili, benché abbia per filo conduttore una stagione che incombe incessantemente sulla cultura artistica italiana e che può finire per venire in uggia. Per onestà occorre aggiungere che tale stagione ‘incombe’ a buon diritto: fu ricca e gloriosa, non solo nel nostalgico sentimento di chi la visse, siano essi galleristi, critici o collezionisti (e questi ultimi sono i più nostalgici), ma anche per chi oggigiorno opera nel settore; ché su quel periodo storico ancora ci si puntella, vi si attinge, se ne copiano i vezzi e il linguaggio.

Della mostra ho ricordi frammentari perché, nel visitarla, il già detto sentimento di uggia ha stupidamente prevalso sull’interesse che le opere e l’allestimento meritavano di suscitare; e benché da più parti sia stato esortato a soffermarmi sui pezzi con più attenzione, ho finito per seguire un itinerario del tutto personale, insieme svagato e disordinato. In tanta mia personale somaraggine, m’è però rimasta memoria di splendidi ritratti di Lucio Amelio, che mirabilmente restituivano l’energia del personaggio: un misto di classe e vitalità intellettuale. Così, almeno, l’ho sempre udito descrivere da chi lo conobbe personalmente.

A più oscure divagazioni mi hanno condotto le opere di Joseph Beuys. Costui è ormai universalmente consacrato come un colosso nella storia dell’arte dell’ultimo mezzo secolo; né si può dissentire da tale unanime opinione, a meno d’esser forniti degli strumenti teorici per risistemare criticamente tutta la storia dell’arte del Novecento. Strumenti ch’io non posso vantare e che, se anche possedessi, non impiegherei in un blog. Mi permetto solo di dire che l’icona di Beuys, così monoliticamente carismatica, rappresenta per me il simbolo dell’uggia di cui vagamente parlavo; e che ogniqualvolta mi trovo di fronte quel volto di pietra, quel cappello di feltro e quelle pupille ipnotiche, non posso fare a meno di provare una leggera irritazione.

L’immagine di Beuys ha imperversato e tuttora imperversa sulle copertine di libri e riviste; spesso la si trova appesa nelle case dei collezionisti ultracinquantenni, ove svolge una funzione non dissimile da quella che svolgerebbe un santino di padre Pio in un contesto più proletario…Vabé, ho esagerato, ma da un alone di santità la figura di questo artista è effettivamente avvolta: nell’immaginario di molti, costui ha né più né meno che il ruolo di uno sciamano. Uno sciamano laico, con un look fascinoso.

In mostra alla Fondazione Mazzotta v’è una fotografia che ritrae un Beuys a figura intera, vestito di charmantissimi calzoni chiari e attraversato da una scritta autografa dello stesso artista; la quale proclama il solito: “nous sommes la révoluton”. Di tale immagine fu fatto all’epoca un multiplo a dimensione naturale (ovvero ad altezza d’uomo), che ebbe una certa diffusione: a me, almeno, è capitato di poterlo contemplare un paio di volte, in dimore private.
Ho realizzato, riosservando quell’immagine, come l’eleganza di Beuys sia di un genere tipicamente nordico, capace di coniugare una selvaggia ferocia a una delicatissima gentilezza, non disgiunte da una misteriosa malinconia. La più splendida forma di questa eleganza ‘iperborea’ si può contemplare nella figura di Klaus Kinski, in specie quando costui sfoggia abiti di lino e bianchi panama.

La persona di Beuys, è noto, fu così impregnata dell’aura dell’Arte da diventare essa stessa un’opera d’arte: un processo comune ad altri artisti del Novecento e ormai canonizzato dagli arzigogoli della teoria critica benché, a voler esser riduttivi, tale fenomeno possa essere ricondotto a un banalissimo ‘culto della personalità’; ovvero alla sfera dell’idolatria, della sottomissione psicologica, se non addirittura della propaganda.
Vedere la scritta “noi siamo la rivoluzione”, apposta a un’immagine di Beuys ha sempre, ai miei occhi, un effetto lievemente comico; giacché nel mio immaginario rivoluzione e ribellione mal si coniugano al culto della personalità. Sono anzi convinto che il vero ribelle sia per sua struttura biologica insofferente delle personalità carismatiche e dei protagonismi, così come dei leader, dei guru e finanche degli sciamani laici. Il fatto che poi questa mia convinzione sia smentita dalla storia, e che le rivoluzioni vengano sovente guidate da detestabili primedonne, non riesce a mutare il mio sentimento: le masse sono costituite da individui suggestionabili e le rivoluzioni s’è visto come vanno a finire… Con le mummie nei mausolei, alla maniera dei faraoni.

A conclusione di queste divagazioni, e per fugare l’idea che io, ostentandomi immune al fascino di Beuys, voglia assumere la posa dell’ideale ‘vero ribelle’ cui poc’anzi accennavo, dico che non disdegnerei di tenermi in casa un’immagine dell’artista in questione. O meglio…diciamo che son ribelle a metà: dovendo scegliere chi appendere alla parete del salotto (e rimanendo nel campo delle foto, ché se si parlasse di persone fisiche avrei tutt’altre idee…) preferirei senz’ombra di dubbio una monocroma immagine di Beuys, magari di modeste dimensioni e disinvoltamente fissata con trasparenti pitch point, a uno Stalin sotto vetro o al poster di John Lennon. Sicuramente vorrei essere scrutato dal magnetico sguardo dell’artista tedesco piuttosto che dagli occhi spenti di Giorgio Napolitano, come accade a sindaci e questori nei loro uffici. Perlomeno Beuys è un bel tipo, e un rivoluzionario, a modo suo, cercò pur di esserlo…

1 Responses to Noi siamo la rivoluzione (ma solo in parte)

  1. Franziska ha detto:

    Come faccio a risponderti con poche parole, vittima del mio stesso mestiere che m’ha mozzato la prosa, smocciacandola per farla diventar notizia…diciamo che è piacevole e confortante sapere che esistono ancora persone che usano i termini con grazia e coscienza, limandole e affiancandole come pezzi unici da mostrare. Significanti con contenuto, non spoglie vuote, solo per far scena.

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